Siamo abituati a ritenere la privacy uno strumento moderno a protezione dei dati personali ma ecco che le più avanzate tecnologie riescono a trasportarci nel passato e fanno emergere fenomeni inaspettati di trattamenti massivi dei dati personali che dovrebbero prevedere l’informativa sulle finalità,  richiedere obbligatoriamente il consenso di intere popolazioni e, perchè no, la predisposizione di un DPIA preventivo e propedeutico alla raccolta dei dati.

Il problema in questione viene sollevato dal telerilevamento e dalla fotografia aerea utilizzati per le analisi diagnostico-investigative anche in archeologia.
Da qualche tempo imperversa, infatti, una discussione scientifica sull’uso etico delle informazioni raccolte e un team di ricercatori ha pubblicato uno studio sulla rivista Archaeological Prospection proprio su questo discusso e discutibile argomento di cui un estratto è stato pubblicato da Pennsylvania State University, tradotto e rielaborato dall’archeologo abruzzese Daniele Mancini.

Dylan Davis, dottorando in archeologia alla Penn State University, conferma che gli archeologi possono utilizzare un’ampia gamma di tecnologie per comprendere meglio come i gruppi umani del passato abbiano interagito con i sistemi terrestri: dalle vecchie metodologie come l’analisi della fotografia aerea, alle tecnologie più recenti, come i processamenti delle immagini satellitari e il LiDAR (Light Detection and Ranging) che fornisce informazioni dettagliate sulla superficie sottostante.

Davis ritiene che il telerilevamento sia uno strumento che debba essere utilizzato per grandi aree oppure potrebbe risultare estremamente controproducente.
Secondo Davis, se non si comunica l’obiettivo della ricerca attraverso queste nuove tecnologie con le comunità locali, in particolare le comunità indigene che potrebbero essere lì da centinaia o migliaia di anni, la ricerca potrebbe raccontare aspetti considerati di carattere “personale” del gruppo umano del territorio.

E qui si affronta il problema dell’informativa privacy ex artt 13 e 14 del GDPR 2016/679, ma a questo punto si dovrebbe prevedere un Regolamento mondiale a tutela del trattamento dei dati personali. Informativa che deve riportare, in modo chiaro ed esaustivo, la finalità e gli obiettivi del trattamento con richiesta di consenso.

Un esempio di trattamento “illecito” potrebbe essere un rapporto di ricerca che affermerebbe, erroneamente, che una comunità osservata sia stata direttamente responsabile della distruzione di una foresta pluviale. Utilizzando i dati del rapporto, il governo potrebbe creare leggi che andrebbero a influire negativamente sulla quella comunità.
Secondo Davis, dunque, se non si utilizzano queste tecnologie di concerto con le comunità locali e non ci si assicuri che siano consapevoli non solo di ciò che si stia facendo ma anche del motivo per cui lo si stia facendo, comprese le intrusioni nella loro cultura e in quella dei loro antenati, potenzialmente la ricerca rappresenterebbe un danno per l’intetra  comunità.

Davis ritiene anche che gli archeologi che realizzano ricerche tradizionali di persona comunicano alla comunità stessa cosa stanno osservando e acquisiscono le autorizzazioni e le forme legali di tutela necessarie. Gli archeologi e gli studiosi in genere, dunque, possono procedere senza remore di sorta. I principi del telerilevamento, invece, non sono codificati allo stesso modo dell’archeologia tradizionale e, pertanto, non hanno linee guida etiche che riguardano specificamente il telerilevamento.

Dani Buffa, coautore del documento, conferma che il telerilevamento potrebbe essere particolarmente problematico nelle comunità che riconoscono la sacralità in determinati luoghi e limitano i diritti di visita o la conoscenza di quei luoghi a determinati individui. I ricercatori che utilizzano dati telerilevati dovrebbero capire che questo potrebbe essere profondamente invadente per alcune comunità.

In Madagascar, per esempio, le comunità osservano un’ampia varietà di tabù, noti come fady, per prevenire danni fisici alle loro famiglie e alla comunità da parte di spiriti inquieti. Ai luoghi fady è vietato l’accesso a tutti o solo agli estranei e queste regole sono rigide che il telerilevamento potrebbe scavalcare irrispettosamente.

Secondo i ricercatori autori della ricerca, le comunità di tutto il mondo dovranno lottare continuamente per la loro autonomia, la propria sovranità sui territori, la salvaguardia dei mezzi di sussistenza e della cultura. La tecnologia di telerilevamento è incredibilmente potente e, poiché può essere utilizzata da lontano, è spesso considerata non invasiva ma, man mano che le tecnologie diventano sempre più sofisticate e potenti, abbiamo la responsabilità di riconoscere i modi in cui la loro applicazione possa violare i diritti delle comunità.

   

Dott. Igino ADDARI
DPO
ACTAINFO

     

     

 

 

 

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